domenica 6 ottobre 2013

SENZA TERRA

Sarà stato abbandonato da almeno una settimana, poveraccio in questo luogo desolato,  lontano dagli uomini e dagli occhi di Dio!”
Il tanfo del corpo in decomposizione impregnava ogni cosa rendendo l’aria irrespirabile e impossibile la permanenza degli uomini, come se anche da morto volesse segnare la propria esclusione. Un segno di separazione e di esclusione che le narici percepivano e non potevano evitare.
“Dotto’ che facciamo ancora qui?  Non possiamo aiutarlo e non c’è traccia di nulla in giro, nemmeno una cicca di sigaretta da raccogliere e imbustare.
Non so proprio cosa porteremo in questura?”
Il caldo della giornata d’agosto rendeva il paesaggio afflitto come se percepisse solo esso il dolore che l’uomo s’era lasciato dietro. La morte aveva reso inquietanti con il proprio odore l’erba e gli arbusti bruciati dal sole mentre intorno il silenzio era rotto dal lontano latrato di un cane,cui rispondeva più distante un suo simile.
“Che cazzo faceva ‘st’africano quassù?- Il commissario non riusciva a rendersi conto di quanto i suoi occhi vedevano.
            Tutto appariva pretestuoso, insopportabilmente artefatto per essere vero.
Si stava facendo violenza alla sua intelligenza.
Interrompendo i pensieri ordinò con decisione: “ Pasqua’, non ce ne andiamo se prima non abbiamo controllato tutto. Dovete cercare, frugare in ogni “frasca”, dovete setacciare ogni sentiero qui intorno.
Mi hai capito?
Disponi gli uomini a cerchio partendo dal morto e poi falli allontanare e attenzione! Dovete raccogliere tutto, ogni oggetto strano e fotografate le tracce .“ Rivolto agli altri agenti -Mi raccomando metteteci impegno! Mi aspetto un buon lavoro e non vi lasciate trasportare dal sentimento che il morto è un negro e non ne vale la pena.”
            Erano stati chiamati per telefono, una voce maschile dall’inconfondibile accento calabrese, uno del luogo, come loro: non aveva dubbi al proposito.  Li aveva avvisati della presenza del morto in campagna, in collina di fronte al mare. Poche parole con l’indicazione della località e poi la telefonata era stata interrotta. Come al solito, questo era il massimo del senso civico che ci si poteva aspettare: una telefonata anonima.
Adesso erano circondati dal silenzio, rotto dal rumore del treno che usciva dalla galleria nella pianura costiera e dallo smarmittare di un motorino,giù, nel greto della fiumara, che l’estate aveva resa secca. Si era affacciato dal costone della collina per guardare in basso, vedeva il treno sfrecciare verso sud, uno dei treni veloci che andavano a Reggio.
            Un giovane uomo avevano trovato, un giovane negro, freddato con un colpo di pistola alla testa.
            Cosa era avvenuto e perché?
La domanda se la ripeteva con ossessione, senza darsi una risposta. Non la voleva, voleva che la domanda rimanesse nella sua testa, conficcata come un chiodo.
Il fastidio lo avrebbe costretto a cercare la risposta, non una qualsiasi, ma la risposta che gli consentisse di schiodarsi da dosso il dubbio e di liberare il cervello e la coscienza.
            Un randagio era quello che avevano di fronte a loro, uno di quei miseri esseri in fuga dalla terra natia, scacciato dal suo villaggio di capanne da qualche guerra etnica, oppure allettato dalle sirene della ricchezza europea. Il suo cammino era terminato qui, giunto alla fine delle strade della vita in un luogo sperduto e senza significato.
            Vittorio Sgro alzò gli occhi: verso sud la piana e un aereo che lentamente scendeva in direzione dell’aeroporto e ancora più in la le Serre e l’Aspromonte. Voleva respirare a pieni polmoni, inalare lo iodio che saliva dal mare, ma lo tratteneva la puzza della morte.
Un lampo gli attraversò la mente: forse era uno di quei disperati stivati in quella comunità di accoglienza messa su all’improvviso con i soldi dell’emergenza? Era elementare come soluzione, ma poteva anche essere. Non doveva scordarsi di mostrare la foto dell’ucciso agli operatori e ai migranti, era la prima cosa da fare quando sarebbero ridiscesi in paese. Se era uno dei loro lo avrebbero identificato dandogli un nome. Un nome indicava un individuo, come se gli desse significato e lo riportasse all’esistenza, lo ricollocasse tra gli uomini
            L’idea invece di confortarlo gli creò disagio.
            Tutto ciò non avrebbe vinto l’ingiustizia di un corpo abbandonato, non avrebbe permesso la realizzazione dei sogni di questo giovane uomo approdato sulle spiagge del sud trasportatovi da mercanti di carne umana.
            Si decise, era un atto di giustizia: respirò.
Le cose non sarebbero ritornate a posto, ma respirò a lungo e profondamente. Dopo, liberato dall’oppressione dell’iniquità che aleggiava nell’aria, si avvicinò, di nuovo, al cadavere per controllare il foro del proiettile. Gli avevano sparato da vicino, poteva vedere ancora i segni della bruciatura sulla pelle.
            Un’esecuzione!
Il morto non doveva essere estraneo ai luoghi.
“Dotto’, dotto’…” Si sentì chiamare. La voce era quella dell’agente Mimmo Fiorillo, la riconobbe subito e si affrettò a raggiungerlo.
Mimmùu trovato qualcosa?
Spero proprio di sì, non mi avrai fatto fare questa scappata per una minchiata. – Il Commissario aveva la camicia chiazzata di sudore. – Fammi vedere cosa hai trovato.”
            “Dotto’ piano, fate piano e attenzione a non sopravanzarmi: da questo punto iniziano le tracce dei pneumatici. Delle gomme grosse, di un fuoristrada. Sono certo di quello che dico, le ho seguite e vanno verso la strada: l’interpoderale che abbiamo fatto per salire quassù.”
Il poliziotto avanzava lentamente indicando il sentiero al suo capo.
           
            Un lampo accompagnato da un leggero fremito delle pupille attraversava gli occhi della donna, impercettibile, in un istante era tutto svanito. Forse non significava niente. La vicinanza della legge creava sempre un subbuglio nel cuore di queste donne orientali. Una bella donna dalla bocca discreta e dai tratti invitanti.
            Come aveva detto di chiamarsi? Veruska?  
Paura? Lo sguardo si era ricomposto subito, la donna era padrona di se stessa.
            Il commissario annotava le emozioni, avrebbe dato, in seguito, una spiegazione a quello che percepiva, le avrebbe collegate in un ragionamento.
            Negavano e nessuno dei suoi era in grado di parlare con i neri, nemmeno lui, con il suo scarso inglese, era riuscito a mettere su delle richieste apprezzabili e condurre in porto gli interrogatori. Loro sì che avevano paura, il panico di essere rimandati indietro e volgevano lo sguardo su quell’altro, quel negro dal viso impassibile e dal corpo statuario; un ciclope. Era il loro capo! Forse in Africa comandava una banda. La sua voce sicura aveva impartito l’ordine di massacri?  Guidato qualche gruppo di rivoluzionari? 
            Lo aveva fatto allontanare, ma la sua assenza non aveva liberato i migranti dalla paura.
Stava sbagliando, nulla di concreto avvalorava le sue percezioni, niente di niente. Anzi tanti dinieghi di fronte alla foto del morto, anche dei “no” in un italiano primordiale e tenero.
La russa aveva chiesto per lui in inglese e arabo, aveva tradotto le sue domande e ritradotte le risposte. Solo una ragazza aveva reagito, si era rivolta direttamente a lui in un francese stentato: “Emmène-moi, sont des tueurs. Il était mon homme, m'emmener. je vous en supplie…”
L’avevano zittita, la sua voce era stata sommersa dalle urla.
“Dice che il suo uomo non è qui, chiede di poterlo raggiungere, vi supplica di aiutarla.- Veruska aveva tradotto. - Commissario sono al limite della disperazione, non sanno che fine hanno fatto le loro famiglie. Qua dentro è un inferno e non è semplice e voi con la vostra presenza aumentate l’agitazione. Non è un rimprovero, non mi permetterei mai.”
Una tigre, era una tigre quella che si trovava innanzi, ecco cos’era. Le movenze del felino, l’avvicinamento discreto, la lentezza dei movimenti e poi rapidissima sulla preda.
            La giovane negra piangeva, lacrime di disperazione, non poteva lasciarla la, una vocina da dentro gli sussurrava che doveva portarla via, allontanarla. In questura avrebbe utilizzato un interprete di fiducia e poi tentare non costava niente. Era come lanciare una lenza nella speranza che l’unico pesce del mare abboccasse.
“ Potrei venire con voi – lo aveva sfiorato con i fianchi, appena sfiorato. C’era in quel tocco tutto un discorso, promesse, ma anche brividi di ignoto. La donna si offriva come un territorio selvaggio, pronto per essere esplorato.- Portatela via, anche lei, poverina, accentua lo stato di disagio e la mia presenza può rassicurarla.- Di nuovo il contatto con il braccio della femmina aveva accentuato l’offerta. Il commissario la guardava, cercava nei suoi occhi la conferma alle avances. Non vi trovò niente se non dei laghi di acque profonde, acque fredde, emozioni ghiacciate, circondate da alberi generati da una volontà di ferro.
            Non poteva seguire i suggerimenti della donna, non potava dargli il vantaggio di condurre il gioco o era questo che lei voleva che pensasse. Lo metteva in difficoltà eppure doveva decidere velocemente e correre il rischio di sbagliare.
            Qualcosa non andava là dentro, era sicuro, ma non era certo che questo qualcosa fosse legato al morto o lo era?
“Non c’è bisogno di portare via nessuno e noi non siamo i servizi sociali, ma la polizia di stato. Per condurre il centro ci siete già voi e i problemi dovete risolverveli da soli.- Poi a bassa voce e rivolto alla donna:- Signora avrei desiderio di conoscervi meglio. Parlare con voi. Una cena? Ti posso invitare? Una serata insieme approfondirebbe la mia conoscenza di un mondo femminile nuovo.”
            Lei lo osservava come fa la gatta quando il topo è ormai tra le sue zampe. Una gatta con le orecchie diritte e gli occhi dilatati. Si aspettava di farne un sol boccone, Il commissario si offriva indifeso a questa caccia dando l’impressione di nascondersi e di essere altrettanto furbo, capace di evitare la cattura e di catturare lui, topolino, l’altra, un felino. Lo guardava adesso quasi divertita e nel contempo lasciava trasparire il suo interesse di femmina di fronte al maschio.
“Commissario mi vuoi portare a cena o a letto? – Gli sussurrò nell’orecchio.
L’uomo di rimando: “ A cena e anche a letto bella Veruska se a te interessa. Passo stasera a prenderti.”
            Era un gioco pericoloso quello in cui si stava imbarcando e se aveva ragione la giovane negra che stava lasciando lì correva un pericolo grave e imminente. Se era esatto quello che aveva capito loro non potevano permettersi di lasciarla in vita, ma ucciderla lì era anche per loro un rischio. Avrebbero tentato di portarla via e farla scomparire. Bastava lasciare una pattuglia fuori dal centro per impedire gesti affrettati. Una pattuglia all’ingresso e un'altra a breve distanza era quello che ci voleva per tenerli in apprensione e impedire decisioni e gesti frettolosi. Se era giusto quello che pensava la banda poteva aspettare e fare scomparire la donna con tutta tranquillità.
            “Mimmooo ce ne andiamo. Di agli uomini che rientriamo in questura. Voglio una macchina fuori dal cancello e un'altra che sosti nelle vicinanze. Noi rientriamo.
Alla donna: “Stasera alle otto sono qua, mi deluderai? Sarà sicuramente una serata memorabile.”
Veruska lo avvolgeva con lo sguardo, già nei suoi occhi vi erano invitanti scene di sesso.

            Tutto era pronto, studiato nei dettagli e nulla era stato lasciato al caso. Un gruppo di uomini della DIA provenienti da Reggio si era unito alla squadra per garantire la discrezione. Sarebbero stati loro a seguire le mosse della banda.
Il commissario alle 20.00 in punto fermò l’auto all’entrata della comunità e, dopo essere sceso, mandò via le pattuglie che stazionavano nei pressi della struttura.
            La donna lo aspettava all’ingresso. Poco era cambiato nel suo aspetto e un vestitino da sera ne accentuava la femminilità.  “Sono interessata alla ricerca, eccomi qua per un incontro tra culture. Sarà interessante conoscere un poliziotto italiano.- Rise mostrando dei denti ancora perfetti. – Commissario dove mi porterai? Una sorpresa, un ristorante diverso da quelli di qua. Passeggeremo?.” Mentre entrava in macchina sembrava che desse il segnale di avvio di qualcosa di diverso di una serata romantica.
“Se  va bene a te ho scelto un ristorante in collina, a mezz’ora di macchina, un posto accogliente dove si mangia bene. Non piatti della cucina di mare, ma cibi campagnoli.”
            La donna si era sistemata sul sedile allacciandosi la cintura di sicurezza e gli aveva sfiorato la mano con una carezza. “La serata si presenta bene e poi mi accompagnerai indietro subito oppure potremo stare assieme ad approfondire la conoscenza dei nostri mondi? Se farai il buono t’insegnerò anche un po’ di russo. Да, я быть хорошо для вас, принять вас, где вы никогда не были Витторио*.”
“Cosa dici bella Veruska, conosco solo qualche cosa di inglese e un po’ di francese,ricordo degli anni di scuola. Siamo proprio degli ignoranti, la mia generazione pensava che il mondo finisse a Milano. Sei una donna libera!  Non equivocare, da noi si potrebbe pensare una puttana. No, non lo sei, sei solo disinibita. Anch’io ti parlerò la lingua della mia terra. Signu n’uomminu e cumu talu ti pigliu. L’agriturismo ha anche le camere e ho prenotato una stanza. Se non sei pronta basta dire no.
            Si allontanarono.
Se avessero portato via la giovane negra i suoi uomini li avrebbero seguiti, mentre gli altri rimasti avrebbero fatto irruzione nel centro di accoglienza per rivoltarlo alla ricerca di armi, droga e bloccare i migranti al suo interno raccogliendo informazioni sul ciclope scuro e la sua banda. Appena l’operazione raggiungeva i primi risultati e le confessioni de neri venivano rese lo avrebbero avvertito.
            Pensavamo di averlo portato nella tagliola e lui si era fatto condurre docilmente. Avevano messo sulla tagliola al posto del formaggio Veruska e lui stava seguendo l’odore della femmina. Se non era vero quello che aveva subodorale ci avrebbe rimesso la faccia. Era abituato a correre i rischi del mestiere. La trappola che lui aveva ordito avrebbe consentito di prenderli tutti.
            Cosa c’era di così importante da spingerli a uccidere ed essere pronti a rifarlo? 
                        Armi?
                        Droga?
E Veruska come si legava agli africani? Quale era la colla che li teneva insieme?
La donna non era una gregaria ma una pedina importante del gioco.
                        La regina? Non l’avrebbero mandata a dirigere la partita in un paese della Calabria.
            Aspettava paziente la telefonata mentre Veruska lo accarezzava con la voce, gli faceva intravvedere una notte di giochi erotici.
 Un vibrazione prolungata proveniente dalla tasca del pantalone, il cellulare annunciava che la sua intuizione era esatta: li avevano smascherati e fermati.

*             Sì, sarò brava con te, ti condurrò dove non sei mai stato Vittorio.
Si pose subito il problema di come condurre con se la donna senza destare sospetti, ma era meglio farla aspettare in quel locale. Doveva rassicurarla per non indurla a scappare.
Prese il telefonino e lesse il messaggio. “Devo andare. C’è stata una sparatoria a Temes e devo essere lì prima dell’arrivo del giudice. Puoi aspettarmi qua o se desideri ti riporto indietro al centro. Decidi tu. Ne avrò per un paio di ore e poi ti raggiungo, non possiamo interrompere questa seduta di istruzione.”
La donna appariva perplessa, non voleva che il poliziotto andasse via, ma non sapeva come trattenerlo. Temes era a venti chilometri dal centro e Mustafà non avrebbe mai portato la donna così lontano. Poteva farlo andare, Vittorio sarebbe ritornato e lei ne avrebbe fatto un boccone, un altro maschio da aggiungere ai suoi trofei.
“Puoi andare, ti aspetto in camera ma promettimi di ritornare.” Lo accompagno fino alla macchina e prima di farlo entrare la sua bocca cercò quella dell’uomo: un bacio a rovistargli l’animo.
                *Sì, sarò brava con te, ti condurrò dove non sei mai stato Vittorio.
            Li avevano presi, una banda di mercanti di uomini. In Italia loro erano addetti all’accoglienza di quanti dalle coste della Sirte, in Libia, arrivavano prima a Lampedusa e poi nei centri di accoglienza della Calabria.
            I nuovi arrivati diventavano subito merce per il mercato della prostituzione o manodopera per l’agricoltura e il turismo. I pochi euro guadagnati finivano nelle mani della banda quale prezzo da pagare per il viaggio in Italia. Poi dai porti calabresi i russi inviavano i loro carichi di armi in Libia: ecco la colla e Veruska. Il giovane nero, trovato in campagna, voleva andare via, non lasciare il frutto del suo lavoro. Voleva la libertà, per questo aveva attraversato il deserto insieme alla sua donna, aveva consegnato tutte le sue ricchezze ai libici e adesso si trovava, invece, schiavo in Europa, come lo erano stati i suoi antenati, imbarcati sulle navi dei negrieri, nelle Americhe.
Non potevano permetterlo, lo avrebbero ucciso e la stessa cosa avrebbero fatto alla sua donna.
            Vittorio Sgro pensava a Veruska, la gatta aspettava tranquillamente nella tagliola. Si trattava di andarla a prendere. Una gatta catturata dal topo.
Decise che non sarebbe andato lui a prenderla.





Non so fare altro per ricordare i morti di Lampedusa. Non solo vergogna ma consapevolezza che una parte del mio benessere è un frutto maledetto
                                                                                                                                 Mario Aloe














giovedì 17 gennaio 2013


           

Non so a che punto siamo


 Il romanzo di Mario Aloe "La fine di un sogno: storia di un italiano" (Editore Mannarino Brescia pagg. 236 con figure) rappresenta una novità nel panorama letterario calabrese per la fluidità del racconto e le condizioni di vita materiale che emergono. L’opera, ambientata in un’epoca cruciale della storia italiana (gli anni che vanno dalla fine del 1783 alla morte di Gioacchino Murat a Pizzo Calabro nel 1815) è una rivisitazione di vicende e speranze e un affresco dalle tinte forti della Calabria e del Mezzogiorno. Epoca di grandi sconvolgimenti, di crisi verticale degli assetti statali, ma anche di speranze ed illusioni. L'illuminismo prima, la massoneria coi suoi circoli, diffusi in numerosi centri calabresi(Cosenza, Catanzaro, Tropea,Reggio Calabria, Crotone ecc) e le correnti giacobine poi hanno contribuito alla formazione una generazione di giovani aperti al futuro e vogliosi di fare la storia. Basti pensare all’opera di proselitismo svolta dall’Abbate Jerocades di Parghelia, ai suoi numerosi viaggi tra Marsiglia, Napoli e le Calabrie, all’l’insegnamento di Francesco Saverio Salfi a Cosenza, di Pietro Aracri a Catanzaro e di Giuseppe Lagoteta a Reggio Calabria,
Come non ricordare l’apporto dato dalle donne alla rivoluzione napoletana da Eleonora Fonseca Pimentel a Luisa Sanfelice, da Giulia Carafa alle giovani cadute nella difesa del ponte della Matalema.
Il loro coraggio e sacrificio è stato il cuore della rivoluzione napoletana del 1799, degli alberi della libertà piantati nelle piazze di Catanzaro, Tropea, Crotone, Pizzo, Amantea, Monteleone(l'attuale Vibo Valenzia), Cosenza e nei paesi albanesi e il lascito per i moti successivi degli anni venti dell'ottocento e di quelli del 1848.
In tanti pensano,ancora oggi sulla scorta della retorica leghista, che l’Italia sia un’astrazione, una pura invenzione: il romanzo di Mario Aloe  mostra il cammino faticoso che l’idea d’Italia ha dovuto compiere. Un cammino intrapreso in varie parti della nostra penisola e che noi seguiremo nelle vicende del libro in un giovane calabrese, uno di quei giovani abitanti del regno delle Due Sicilie che scelse di stare dalla parte della ragione.
Una scelta difficile che costò la vita a tanti calabresi basti pensare ad Antonio Toscano, giovane curato di Corigliano, che si fece saltare insieme ai suoi giovani compagni d’armi calabresi anche loro alla Vigliena, il forte alle porte di Napoli da loro difeso, alle gesta della Legione Calabra del generale Schipani,, ai tanti giustiziati nella piazza del Mercato A Napoli dopo il ritorno dei borboni. Una generazione di italiani da Agamennone Spano di Reggio Calabria a Pietro Nicoletti di Rogliano, da Pasquale Baffa di Santa Sofia d’Epiro a Vincenzo De Filippis di Tiriolo, da Raffaello Antonio Doria di Crotone a Domenico Bisceglie di Donnici  da Giuseppe Lagoteta di Reggio Calabria a Pasquale Assisi di Cosenza ed altri ancora di un lungo elenco di martiri. Una generazione presa la via dell’esilio da Francesco Saverio Salfi di Cosenza a Gugliemo Pepe
Il libro di Mario Aloe può rappresentare un utile strumento per rileggere la storia delle nostre città all’interno di una vicenda in movimento in cui le passioni umane si sviluppano, amori nascono, genti si scontrano, ideali suscitano rivolgimenti.

martedì 16 ottobre 2012

LA FINE DI UN SOGNO

16 ottobre 2012:, ho mandato il file del romanzo all'editore. Il Titolo è sintomatico del mio stato d'animo: LA FINE DI UN SOGNO.
Quando finisci di scrivere ancora non riesci a staccarti dalla tua creatura, è lì ad assediarti. Anche il fatto che perdi il file corretto è frutto del tuo inconscio che vuole rimanere attaccato alla storia. Il romanzo ormai è fatto, non voglio più ritoccarlo. Lo pubblico con un anno di ritardo; i festeggiamenti per i 150 dell'Italia sono lontani e il pericolo leghista non turba più i sonni di nessuno.
"Cosa potevano fare quegli uomini alla fine di un’epoca quando sembrava che la tirannia fosse ritornata a prendere possesso delle terre italiche: andarono Gioacchino, Luigi Baffa e poche decine di altri coraggiosi con la speranza di sollevare le Calabrie, di risalirle alla testa di un esercito di italiani.
            Finalmente si sentivano liberi, liberi di rischiare e di morire."
Stasera il mio stato d'animo è identico.

mercoledì 19 settembre 2012

Il romanzo alla fine l'ho scritto. "La fine di un sogno: storia di un italiano." Penso anche di pubblicarlo.

lunedì 17 settembre 2012

Camminando Onlus Amantea: Escursione al tramonto. San Pietro in Amantea

Camminando Onlus Amantea: Escursione al tramonto. San Pietro in Amantea


Oggi abbiamo percorso l'antica via che da Cosenza scendeva ad Amantea. Abbiamo fatto il tratto da Greci al mare attraversando il Camolo.
Emozioni forti mo hanno fatto compagnia.
Riporto uno dei capitoli del mio nuovo libro: LA FINE DI UN SOGNO; Luigi Baffa storia di un italiano.
Il viaggio viene compiuto nel 1786 da Amantea a Cosenza sulla stessa strada.

Partirono alle prime luci del mattino uscendo dalla porta di Catocastro e, dopo aver attraversato il fiume, salirono per il Camolo raggiungendo, dopo circa un paio di ore, il casale di Vadi posto sul crinale della collina. Avevano scelto questa strada perché li portava lontano dalle acque malsane del “Laghiciello” che, invece, avrebbero incontrato salendo dal casale di San Pietro costeggiando il crinale della montagna per giungere a Terrati.
Il lago anche in ottobre, dopo una stagione di caldo torrido, rappresentava un pericolo per i fumi maleodoranti che da esso si alzavano. La strada che stavano percorrendo evitava invece questo incontro e consentiva anche di accorciare il cammino. Non vi era necessità di passare da Aiello e poi dai casali di Grimaldi e Rogliano ed era inutile correre il pericolo di qualche malattia che dal lago arrivava; il loro carico era destinato a Cosenza.
La giornata era di un azzurro terso e il calore del sole aveva reso l’aria rarefatta. Lontano, piantate nel mare, Stromboli con il suo pennacchio di fumo e poi le isole, una dietro l’altra, e in fondo al mare, prima dell’orizzonte, a Sud, il fantasma dell’Etna. Guardando ti perdevi nell’infinito e avvertivi l’insensatezza dei tuoi sforzi mentre gli affanni diventavano un piccolo sospiro e la tua presenza un granellino nel mondo immutabile della natura. Una sensazione di pace estrema ti attraversava mentre percepivi di essere parte di questi boschi, di queste colline e del mare grande che era là sotto i tuoi occhi e non finiva mai. Tu appartenevi, come ogni altra cosa, a quel respiro lento che accompagnava il tuo cammino.
Gli animali e gli uomini formavano una lunga fila che si adagiava sulla collina. Quella scena, nel ricordo, ora mi appare come un quadro, impressa nella tela dagli oli di un pittore. Ne vedo i colori, ne avverto la calma, ne sento il silenzio.
Prima di Greci si fermarono per un breve riposo e per desinare. Comparvero come d’incanto delle forme di pecorino e della soppressata insieme a degli otri pieni di vino. Mangiarono con calma bevendo dagli otri grandi sorsate di liquido. Il salame fu tagliato in fette dallo spessore di un dito mentre i pezzi di pecorino accompagnavano grandi fette di pane. Non avrebbero più preso cibo fino all’arrivo alla sera e la sosta permetteva di riprendere fiato per il cammino che li attendeva.
Luigi era frenetico e percorreva il sentiero avanti e indietro fermandosi a parlare con i mulattieri, facendosi raccontare storie di donne e banditi. La sua curiosità contagiava il gruppo e nessuno si negava alla risposta.
Il ragazzo alla fine si era convinto ad andare in Collegio, lo aveva spinto il desiderio della nuova avventura e la promessa paterna di un viaggio in barca fino alla capitale nell’estate seguente. Era stato doloroso accettare l’idea di separarsi dagli amici, di non percorrere più le strade e i vicoli della sua città, ma aveva obbedito, si era piegato al volere paterno.
La giornata era ancora lunga e i pericoli del viaggio iniziavano adesso nei boschi di Potame, una selva fitta di castagni, faggi, pini ed elci, che prendevano il posto della macchia mediterranea che li aveva accompagnati fino a seicento metri di altitudine. Non era raro, in questi luoghi, incontrare il cinghiale, la volpe e lo scoiattolo o vedere volteggiare nel cielo il nibbio alla ricerca della sua preda, sentirne il grido acuto rompere il silenzio e potevi ascoltare, proveniente dal fitto della selva, l’ululato del lupo.
Nel bosco diventarono guardinghi. Non volevano correre il rischio di essere preda di un agguato, di uno di quegli assalti a tradimento che si terminavano in pochi istanti con il furto di qualche bestia o il rapimento di uno dei mercanti. Occorreva prudenza e bisognava affidarsi alla destrezza e al mestiere del capo dei mulattieri e alle armi dei miliziotti.
Appena fuori Domanico furono fermati da un gruppo di uomini con il fucile tra le mani, il pugnale ai fianchi, la fiaschetta a tracollo e sul capo il capello nero a cono ornato di nastrini colorati in cui il rosso predominava. Briganti, ma non in numero tale da destare preoccupazione.
Il loro capo, dal fisico atletico e dall’espressione truce, si fece avanti con il braccio alzato e il palmo della mano rivolto verso la comitiva nel segnale di arresto.
“Bielli paisani, da duvi veniti?
Fermativi nu pocu cu nua: nu sorsu ‘i vinu, na fetta di panu e furmaggiu e magari nu pugni di ‘sti fichi ca purtati cu vua.”
Conoscevano il nostro carico, ma il loro atteggiamento non era minaccioso: alcuni dei mulattieri erano loro conoscenti e forse loro compagni di malaffare in passato. Sapevano cosa trasportavano, ma non erano in grado di prendersi la roba.
“Cumpari Micu n’aviti fattu na surpresa.- Biagio il capo dei mulattieri, Biagio Anzovito, dai baffi folti e neri e dallo sguardo duro come un macigno, parlava al bandito. Parlava con lui come si fa con un conoscente, con qualcuno con cui si è mangiato pane e formaggio e spartito il rifugio. - Cumu aviti fatto a sapiri che un convoglio saliva la montagna?
Baaha!
C’ sempre ‘na spia pronta a tradire, nu Giuda che vive tra di noi.
Cumpari miu vua certamente non direte una parola? Non farete mai il nome del traditore, ma sapete pure che con mia ‘un n’é possibile prendersi il carico senza combattere.
Micu’ a mia ‘un na faciti, statini certu!”
“Biagiu Anzovi’ e chi vo’ pigliarsi ‘a robba?
Brigante si, fesso no!
U sacciu che nu scrontu vide a nua perdituri. ‘Un vulimo arrubbari! E pu’ arribbari a vua? Allu mio cumpari?
Simo tutti cristiani, ‘un simo cumu chilli  ca si futtuno puri i gallini!
Simu cca, allu passu e tutti ni lassunu ancuna cosa.
Ci simu nua e la presenza nostra ‘un permette che ci siano cristiani marvagi.  Nua survegliamu u boscu, cu nua site sicuri, putiti camminari in paci.”
Il brigante appariva anche lui un mercante, un venditore, che invece di frequentare le fiere di paese se ne stava appostato nei boschi e acquistava, incutendo paura, la roba degli altri senza pagare una grana.
Non erano una grossa banda e apparivano mal armati, ma dalla loro stava la conoscenza perfetta del territorio e la possibilità di colpire alle spalle senza farsene accorgere.
“Micu’ sti signuri, cumu tu sai, vengono da Amantea e portano a merce loro a Cosenza. Tutti rispettabili sunu e anche ‘mportanti. Iu mi signu incaricatu della loro protezione.
A parola di Biagio Anzovito è una merce preziosa e non sarete voi a impedire il passo.
U saggiu che aviti fami, u saggiu ca siti alla macchia per le ingiustizie subite, ma la rrobba loro ‘un na toccati.”
Questo non significava che potessero andare oltre senza pagare il pedaggio: si sarebbero lasciati dietro dei nemici e uno sgarbo era difficilmente scordato da gente simile.
Avrebbero pagato. Un cesto di fichi secchi, un barile di alici salate, un vaso di tonno sott’olio potevano bastare e in cambio avrebbero avuto la certezza di non essere più molestati fino a Cosenza e di non fare brutti incontri al ritorno. Al ritorno avrebbero dovuto ridare qualcosa della merce acquistata in città: qualche camicia, una manciata di nastri colorati. I “signuri di Amantea” si sarebbero rifatti delle perdite aumentando il prezzo delle merci, qualcun altro avrebbe pagato al loro posto.
Luigi rimase sorpreso, i briganti non erano feroci come se li era immaginati. Sì, erano eguali nel vestimento alle figure viste nei libri, avevano le armi dei racconti, ma non prendevano con la forza la roba degli altri. Il loro capo non era intelligente come pensava che dovesse essere un gran brigante. Lo aveva capito scrutando gli occhi dell’uomo, pupille poco mobili, incapaci di percepire la totalità del mondo, occhi duri, frutto della vita pericolosa condotta, ma anche occhi non guizzanti, non in grado di adeguarsi velocemente a fatti in rapido cambiamento. Forse anche per questo la banda non era cresciuta diventando un piccolo esercito.
  Il ragazzo chiese il permesso di toccare le loro armi, prese in mano lo stiletto, assaggiò il vino delle loro borracce e sentì il racconto di uno di loro.
Il brigante apparteneva a una famiglia di contadini, che lavoravano a giornata sulla terra altrui, tanto era scarsa la possibilità di sfamarsi del frutto del proprio terreno. Una vita di miseria condotta alla ricerca perenne di qualcosa con cui cibarsi L’unico loro bene era una capra. La bestia aveva invaso il terreno della famiglia di don Antonio, il notaro di Carolei ed era stata sequestrata e mangiata dai suoi guardiani. Un torto senza rimedio, un’ingiustizia che privava i suoi del latte dell’animale. A nulla erano valse le lamentele, a nulla le richieste di risarcimento: il giovane si era fatto giustizia da solo sgozzando le pecore di don Antonio e dopo era stato costretto ad andare in montagna ed unirsi alla banda.
“Signu iutu alla casa del notaro; che paura ca avive! Mi battive forti ‘u cori. Fino a chillu iurnu non avive fattu mali a nessunu, anche qannu a mamma mia ammazzave li gallini iu avive di guardari i l’atra vanna.
Ho bussato rispettosamente al suo portone ed ho atteso il permesso di salire le scale. Ho aspettato che Don Antonio mi ricevesse.
‘N’attesa longa, nemmenu nu principu m’avisse fattu aspettari tantu.
Ed iu è aspettatu cu’ lu cappiellu in manu in signu di rispettu. Mentre aspettavo morivo, la paura aumentava, mi ripetevo le parole che avrei dovuto dire per non scardarmele e ritornare indietro senza aver pronunciato nulla.
Nu uaglunu eru e donn’Antoniu avivi tuttu: casi, greggi, terreni e guardiani. Iu eru sulu, na capra avive e loru si l’erunu mangiata.
A mamma mia ‘un vuliva che iisse alla casa du padrunu e memmenu suorma.
Chi putive fare nu ugliunu?
‘Un putive che crisciri, diventare uomminu.
E daccussì iu è fattu: n’uommunu signu diventatu, n’uommunu furiusu quannu don Antonio m’a cacciatu da casa sua, quannu m’à negatu u tuortu ca a famiglia mia avive ricevutu.”
Luigi ascoltava con attenzione e dentro sentiva la rabbia montare contro il notaro di Carolei: anche lui avrebbe chiesto giustizia, anche lui si vedeva nei panni del brigante e domandò: “C’à fattu pu’, ti si fattu giustizia, si iutu a chiedere l’intervento dei gendarmi?
Dimmi, raccontami cosa hai fatto?”
“Vossignoria putive iire dai gendarmi e si putive pigliare l’avvocatu, ma iu ‘un avie nenti e cu chi li pagave l’avvocati?
Chi mi stave a sentire a mia?
‘Un aiu avutu atri possibilità, sulu a vendetta mi restava, sulu faciennu ‘u malu putive rennere chillu ca avie ricevuto.
Signu ritornatu alla casa e che chianti è dovutu sentire. I fimmini, a manna mia e la suora mia a mi pregari, a mi chiedere di scurdari.
“‘Un nu fari dicivunu; ‘ un nu fari”.
N’uomminu chi putive fari?
Lavari u tuortu cu ‘na vendetta, ecco chi putive fari e iu l’è fattu...
Tuttu nu greggiu è ammazzatu, tuttu!
Vua c’avissivu fattu?
Vossignoria c’avisse fattu?”
Il brigante chiedeva ansioso e aspettava una risposta che placasse i rimpianti. Una vita lasciata dietro, una vita misera, ma onesta era quella che si era lasciata alle spalle per la prepotenza di un galantuomo.
“L’avisse ammazzate tutte pur’iu” il giovane Baffa rispose e i loro occhi si incontrarono in un cenno di totale intesa, di condivisione.
Ripresero il cammino: mancavano ancora poche ore al tramonto e non volevano farsi cogliere dal buio della notte a girovagare nei boschi.
Scesero velocemente verso Carolei e dopo finalmente nel Busento.
Appena prima del tramonto furono a Cosenza, fermandosi per la notte ai Rivocati.