come nasce un romanzo
domenica 29 dicembre 2013
sabato 28 dicembre 2013
domenica 6 ottobre 2013
SENZA TERRA
Sarà stato abbandonato da almeno una
settimana, poveraccio in questo luogo desolato, lontano dagli uomini e dagli occhi di Dio!”
Il
tanfo del corpo in decomposizione impregnava ogni cosa rendendo l’aria
irrespirabile e impossibile la permanenza degli uomini, come se anche da morto
volesse segnare la propria esclusione. Un segno di separazione e di esclusione
che le narici percepivano e non potevano evitare.
“Dotto’ che facciamo
ancora qui? Non possiamo aiutarlo e non
c’è traccia di nulla in giro, nemmeno una cicca di sigaretta da raccogliere e
imbustare.
Non so proprio cosa porteremo in
questura?”
Il caldo della giornata d’agosto rendeva il paesaggio afflitto
come se percepisse solo esso il dolore che l’uomo s’era lasciato dietro. La
morte aveva reso inquietanti con il proprio odore l’erba e gli arbusti bruciati
dal sole mentre intorno il silenzio era rotto dal lontano latrato di un cane,cui
rispondeva più distante un suo simile.
“Che cazzo faceva ‘st’africano quassù?- Il commissario non riusciva a rendersi conto di
quanto i suoi occhi vedevano.
Tutto appariva pretestuoso,
insopportabilmente artefatto per essere vero.
Si stava facendo violenza alla sua intelligenza.
Interrompendo
i pensieri ordinò con decisione: “ Pasqua’,
non ce ne andiamo se prima non abbiamo controllato tutto. Dovete cercare,
frugare in ogni “frasca”, dovete setacciare ogni sentiero qui intorno.
Mi hai
capito?
Disponi gli uomini a cerchio partendo
dal morto e poi falli allontanare e attenzione! Dovete raccogliere tutto, ogni
oggetto strano e fotografate le tracce .“ Rivolto agli altri agenti -Mi
raccomando metteteci impegno! Mi aspetto un buon lavoro e non vi lasciate
trasportare dal sentimento che il morto è un negro e non ne vale la pena.”
Erano stati chiamati per telefono, una
voce maschile dall’inconfondibile accento calabrese, uno del luogo, come loro:
non aveva dubbi al proposito. Li aveva
avvisati della presenza del morto in campagna, in collina di fronte al mare.
Poche parole con l’indicazione della località e poi la telefonata era stata
interrotta. Come al solito, questo era il massimo del senso civico che ci si
poteva aspettare: una telefonata anonima.
Adesso
erano circondati dal silenzio, rotto dal rumore del treno che usciva dalla galleria
nella pianura costiera e dallo smarmittare di un motorino,giù, nel greto della
fiumara, che l’estate aveva resa secca. Si era affacciato dal costone della
collina per guardare in basso, vedeva il treno sfrecciare verso sud, uno dei
treni veloci che andavano a Reggio.
Un giovane uomo avevano trovato, un
giovane negro, freddato con un colpo di pistola alla testa.
Cosa era avvenuto e perché?
La
domanda se la ripeteva con ossessione, senza darsi una risposta. Non la voleva,
voleva che la domanda rimanesse nella sua testa, conficcata come un chiodo.
Il
fastidio lo avrebbe costretto a cercare la risposta, non una qualsiasi, ma la
risposta che gli consentisse di schiodarsi da dosso il dubbio e di liberare il
cervello e la coscienza.
Un randagio era quello che avevano di
fronte a loro, uno di quei miseri esseri in fuga dalla terra natia, scacciato
dal suo villaggio di capanne da qualche guerra etnica, oppure allettato dalle
sirene della ricchezza europea. Il suo cammino era terminato qui, giunto alla
fine delle strade della vita in un luogo sperduto e senza significato.
Vittorio Sgro alzò gli occhi: verso
sud la piana e un aereo che lentamente scendeva in direzione dell’aeroporto e
ancora più in la le Serre e l’Aspromonte. Voleva respirare a pieni polmoni,
inalare lo iodio che saliva dal mare, ma lo tratteneva la puzza della morte.
Un
lampo gli attraversò la mente: forse era uno di quei disperati stivati in
quella comunità di accoglienza messa su all’improvviso con i soldi
dell’emergenza? Era elementare come soluzione, ma poteva anche essere. Non doveva scordarsi di mostrare la
foto dell’ucciso agli operatori e ai migranti, era la prima cosa da fare quando
sarebbero ridiscesi in paese. Se era uno dei loro lo avrebbero identificato
dandogli un nome. Un nome indicava un individuo, come se gli desse significato
e lo riportasse all’esistenza, lo ricollocasse tra gli uomini
L’idea invece di confortarlo gli
creò disagio.
Tutto ciò non avrebbe vinto
l’ingiustizia di un corpo abbandonato, non avrebbe permesso la realizzazione
dei sogni di questo giovane uomo approdato sulle spiagge del sud trasportatovi
da mercanti di carne umana.
Si decise, era un atto di giustizia: respirò.
Le
cose non sarebbero ritornate a posto, ma respirò a lungo e profondamente. Dopo,
liberato dall’oppressione dell’iniquità che aleggiava nell’aria, si avvicinò,
di nuovo, al cadavere per controllare il foro del proiettile. Gli avevano
sparato da vicino, poteva vedere ancora i segni della bruciatura sulla pelle.
Un’esecuzione!
Il
morto non doveva essere estraneo ai luoghi.
“Dotto’, dotto’…” Si sentì chiamare. La voce era quella dell’agente
Mimmo Fiorillo, la riconobbe subito e si affrettò a raggiungerlo.
“Mimmùu trovato qualcosa?
Spero proprio di sì, non mi avrai fatto
fare questa scappata per una minchiata.
– Il Commissario aveva la camicia chiazzata di sudore. – Fammi vedere cosa hai trovato.”
“Dotto’
piano, fate piano e attenzione a non sopravanzarmi: da questo punto iniziano le
tracce dei pneumatici. Delle gomme grosse, di un fuoristrada. Sono certo di
quello che dico, le ho seguite e vanno verso la strada: l’interpoderale che
abbiamo fatto per salire quassù.”
Il
poliziotto avanzava lentamente indicando il sentiero al suo capo.
Un lampo accompagnato da un leggero fremito delle pupille
attraversava gli occhi della donna, impercettibile, in un istante era tutto
svanito. Forse non significava niente. La vicinanza della legge creava sempre
un subbuglio nel cuore di queste donne orientali. Una bella donna dalla bocca
discreta e dai tratti invitanti.
Come aveva detto di chiamarsi? Veruska?
Paura? Lo sguardo si era
ricomposto subito, la donna era padrona di se stessa.
Il commissario annotava le emozioni, avrebbe dato, in
seguito, una spiegazione a quello che percepiva, le avrebbe collegate in un
ragionamento.
Negavano e nessuno dei suoi era in grado di parlare con i
neri, nemmeno lui, con il suo scarso inglese, era riuscito a mettere su delle
richieste apprezzabili e condurre in porto gli interrogatori. Loro sì che
avevano paura, il panico di essere rimandati indietro e volgevano lo sguardo su
quell’altro, quel negro dal viso impassibile e dal corpo statuario; un ciclope.
Era il loro capo! Forse in Africa comandava una banda. La sua voce sicura aveva
impartito l’ordine di massacri? Guidato
qualche gruppo di rivoluzionari?
Lo aveva fatto allontanare, ma la sua assenza non aveva
liberato i migranti dalla paura.
Stava sbagliando, nulla di
concreto avvalorava le sue percezioni, niente di niente. Anzi tanti dinieghi di
fronte alla foto del morto, anche dei “no” in un italiano primordiale e tenero.
La russa aveva chiesto per
lui in inglese e arabo, aveva tradotto le sue domande e ritradotte le risposte.
Solo una ragazza aveva reagito, si era rivolta direttamente a lui in un francese
stentato: “Emmène-moi, sont des tueurs.
Il était mon homme, m'emmener. je vous en supplie…”
L’avevano zittita, la sua
voce era stata sommersa dalle urla.
“Dice che il suo uomo non è qui, chiede di poterlo
raggiungere, vi supplica di aiutarla.- Veruska
aveva tradotto. - Commissario sono al
limite della disperazione, non sanno che fine hanno fatto le loro famiglie. Qua
dentro è un inferno e non è semplice e voi con la vostra presenza aumentate
l’agitazione. Non è un rimprovero, non mi permetterei mai.”
Una tigre, era una tigre
quella che si trovava innanzi, ecco cos’era. Le movenze del felino,
l’avvicinamento discreto, la lentezza dei movimenti e poi rapidissima sulla
preda.
La giovane negra piangeva, lacrime di disperazione, non
poteva lasciarla la, una vocina da dentro gli sussurrava che doveva portarla
via, allontanarla. In questura avrebbe utilizzato un interprete di fiducia e
poi tentare non costava niente. Era come lanciare una lenza nella speranza che
l’unico pesce del mare abboccasse.
“ Potrei venire con voi – lo aveva sfiorato con i fianchi, appena sfiorato.
C’era in quel tocco tutto un discorso, promesse, ma anche brividi di ignoto. La
donna si offriva come un territorio selvaggio, pronto per essere esplorato.- Portatela via, anche lei, poverina,
accentua lo stato di disagio e la mia presenza può rassicurarla.- Di nuovo
il contatto con il braccio della femmina aveva accentuato l’offerta. Il
commissario la guardava, cercava nei suoi occhi la conferma alle avances. Non
vi trovò niente se non dei laghi di acque profonde, acque fredde, emozioni
ghiacciate, circondate da alberi generati da una volontà di ferro.
Non poteva seguire i suggerimenti della donna, non potava
dargli il vantaggio di condurre il gioco o era questo che lei voleva che pensasse.
Lo metteva in difficoltà eppure doveva decidere velocemente e correre il
rischio di sbagliare.
Qualcosa non andava là dentro, era sicuro, ma non era
certo che questo qualcosa fosse legato al morto o lo era?
“Non c’è bisogno di portare via nessuno e noi non
siamo i servizi sociali, ma la polizia di stato. Per condurre il centro ci
siete già voi e i problemi dovete risolverveli da soli.- Poi a bassa voce e rivolto alla donna:- Signora avrei desiderio di conoscervi meglio.
Parlare con voi. Una cena? Ti posso invitare? Una serata insieme
approfondirebbe la mia conoscenza di un mondo femminile nuovo.”
Lei lo osservava come fa la gatta quando il topo è ormai
tra le sue zampe. Una gatta con le orecchie diritte e gli occhi dilatati. Si
aspettava di farne un sol boccone, Il commissario si offriva indifeso a questa
caccia dando l’impressione di nascondersi e di essere altrettanto furbo, capace
di evitare la cattura e di catturare lui, topolino, l’altra, un felino. Lo
guardava adesso quasi divertita e nel contempo lasciava trasparire il suo
interesse di femmina di fronte al maschio.
“Commissario mi vuoi portare a cena o a letto? – Gli sussurrò nell’orecchio.
L’uomo di rimando: “ A cena e anche a letto bella Veruska se a
te interessa. Passo stasera a prenderti.”
Era un gioco pericoloso quello in cui si stava
imbarcando e se aveva ragione la giovane negra che stava lasciando lì correva
un pericolo grave e imminente. Se era esatto quello che aveva capito loro non
potevano permettersi di lasciarla in vita, ma ucciderla lì era anche per loro
un rischio. Avrebbero tentato di portarla via e farla scomparire. Bastava
lasciare una pattuglia fuori dal centro per impedire gesti affrettati. Una
pattuglia all’ingresso e un'altra a breve distanza era quello che ci voleva per
tenerli in apprensione e impedire decisioni e gesti frettolosi. Se era giusto
quello che pensava la banda poteva aspettare e fare scomparire la donna con
tutta tranquillità.
“Mimmooo ce ne
andiamo. Di agli uomini che rientriamo in questura. Voglio una macchina fuori
dal cancello e un'altra che sosti nelle vicinanze. Noi rientriamo.
Alla donna: “Stasera alle otto sono qua, mi deluderai?
Sarà sicuramente una serata memorabile.”
Veruska lo avvolgeva con lo
sguardo, già nei suoi occhi vi erano invitanti scene di sesso.
Tutto era pronto, studiato nei dettagli e nulla era stato
lasciato al caso. Un gruppo di uomini della DIA provenienti da Reggio si era
unito alla squadra per garantire la discrezione. Sarebbero stati loro a seguire
le mosse della banda.
Il commissario alle 20.00 in
punto fermò l’auto all’entrata della comunità e, dopo essere sceso, mandò via
le pattuglie che stazionavano nei pressi della struttura.
La donna lo aspettava all’ingresso. Poco era cambiato nel
suo aspetto e un vestitino da sera ne accentuava la femminilità. “Sono
interessata alla ricerca, eccomi qua per un incontro tra culture. Sarà
interessante conoscere un poliziotto italiano.- Rise mostrando dei denti
ancora perfetti. – Commissario dove mi
porterai? Una sorpresa, un ristorante diverso da quelli di qua. Passeggeremo?.”
Mentre entrava in macchina sembrava che desse il segnale di avvio di qualcosa
di diverso di una serata romantica.
“Se va bene a
te ho scelto un ristorante in collina, a mezz’ora di macchina, un posto
accogliente dove si mangia bene. Non piatti della cucina di mare, ma cibi
campagnoli.”
La donna si era sistemata sul sedile allacciandosi la
cintura di sicurezza e gli aveva sfiorato la mano con una carezza. “La serata si presenta bene e poi mi accompagnerai
indietro subito oppure potremo stare assieme ad approfondire la conoscenza dei
nostri mondi? Se farai il buono t’insegnerò anche un po’ di russo. Да, я быть
хорошо для вас, принять вас, где вы никогда не были Витторио*.”
“Cosa dici bella Veruska, conosco solo qualche cosa di
inglese e un po’ di francese,ricordo degli anni di scuola. Siamo proprio degli
ignoranti, la mia generazione pensava che il mondo finisse a Milano. Sei una
donna libera! Non equivocare, da noi si
potrebbe pensare una puttana. No, non lo sei, sei solo disinibita. Anch’io ti
parlerò la lingua della mia terra. Signu n’uomminu e cumu talu ti pigliu.
L’agriturismo ha anche le camere e ho prenotato una stanza. Se non sei pronta
basta dire no.
Si allontanarono.
Se avessero portato via la
giovane negra i suoi uomini li avrebbero seguiti, mentre gli altri rimasti avrebbero
fatto irruzione nel centro di accoglienza per rivoltarlo alla ricerca di armi,
droga e bloccare i migranti al suo interno raccogliendo informazioni sul
ciclope scuro e la sua banda. Appena l’operazione raggiungeva i primi risultati
e le confessioni de neri venivano rese lo avrebbero avvertito.
Pensavamo di averlo portato nella tagliola e lui si era
fatto condurre docilmente. Avevano messo sulla tagliola al posto del formaggio
Veruska e lui stava seguendo l’odore della femmina. Se non era vero quello che
aveva subodorale ci avrebbe rimesso la faccia. Era abituato a correre i rischi
del mestiere. La trappola che lui aveva ordito avrebbe consentito di prenderli
tutti.
Cosa c’era di così importante da spingerli a uccidere ed
essere pronti a rifarlo?
Armi?
Droga?
E Veruska come si legava agli
africani? Quale era la colla che li teneva insieme?
La donna non era una gregaria
ma una pedina importante del gioco.
La regina? Non l’avrebbero mandata a dirigere
la partita in un paese della Calabria.
Aspettava paziente la telefonata mentre Veruska lo
accarezzava con la voce, gli faceva intravvedere una notte di giochi erotici.
Un vibrazione prolungata proveniente dalla
tasca del pantalone, il cellulare annunciava che la sua intuizione era esatta:
li avevano smascherati e fermati.
* Sì, sarò
brava con te, ti condurrò dove non sei mai stato Vittorio.
Si pose subito il problema di
come condurre con se la donna senza destare sospetti, ma era meglio farla
aspettare in quel locale. Doveva rassicurarla per non indurla a scappare.
Prese il telefonino e lesse
il messaggio. “Devo andare. C’è stata una
sparatoria a Temes e devo essere lì prima dell’arrivo del giudice. Puoi
aspettarmi qua o se desideri ti riporto indietro al centro. Decidi tu. Ne avrò
per un paio di ore e poi ti raggiungo, non possiamo interrompere questa seduta
di istruzione.”
La donna appariva perplessa,
non voleva che il poliziotto andasse via, ma non sapeva come trattenerlo. Temes
era a venti chilometri dal centro e Mustafà non avrebbe mai portato la donna
così lontano. Poteva farlo andare, Vittorio sarebbe ritornato e lei ne avrebbe
fatto un boccone, un altro maschio da aggiungere ai suoi trofei.
“Puoi andare, ti aspetto in camera ma promettimi di
ritornare.” Lo accompagno fino alla
macchina e prima di farlo entrare la sua bocca cercò quella dell’uomo: un bacio
a rovistargli l’animo.
*Sì,
sarò brava con te, ti condurrò dove non sei mai stato Vittorio.
Li avevano presi, una banda di mercanti di uomini. In
Italia loro erano addetti all’accoglienza di quanti dalle coste della Sirte, in
Libia, arrivavano prima a Lampedusa e poi nei centri di accoglienza della
Calabria.
I nuovi arrivati diventavano subito merce per il mercato
della prostituzione o manodopera per l’agricoltura e il turismo. I pochi euro
guadagnati finivano nelle mani della banda quale prezzo da pagare per il viaggio
in Italia. Poi dai porti calabresi i russi inviavano i loro carichi di armi in
Libia: ecco la colla e Veruska. Il giovane nero, trovato in campagna, voleva
andare via, non lasciare il frutto del suo lavoro. Voleva la libertà, per
questo aveva attraversato il deserto insieme alla sua donna, aveva consegnato
tutte le sue ricchezze ai libici e adesso si trovava, invece, schiavo in
Europa, come lo erano stati i suoi antenati, imbarcati sulle navi dei negrieri,
nelle Americhe.
Non potevano permetterlo, lo
avrebbero ucciso e la stessa cosa avrebbero fatto alla sua donna.
Vittorio Sgro pensava a Veruska, la gatta aspettava
tranquillamente nella tagliola. Si trattava di andarla a prendere. Una gatta
catturata dal topo.
Decise che non sarebbe andato
lui a prenderla.
Non so fare
altro per ricordare i morti di Lampedusa. Non solo vergogna ma consapevolezza
che una parte del mio benessere è un frutto maledetto
Mario
Aloe
giovedì 17 gennaio 2013
Non so a che punto siamo
Il romanzo di Mario Aloe
"La fine di un sogno: storia di un italiano" (Editore Mannarino
Brescia pagg. 236 con figure) rappresenta una novità nel panorama letterario
calabrese per la fluidità del racconto e le condizioni di vita materiale che
emergono. L’opera, ambientata in un’epoca cruciale della storia italiana (gli
anni che vanno dalla fine del 1783 alla morte di Gioacchino Murat a Pizzo
Calabro nel 1815) è una rivisitazione di vicende e speranze e un affresco dalle
tinte forti della Calabria e del Mezzogiorno. Epoca di grandi sconvolgimenti,
di crisi verticale degli assetti statali, ma anche di speranze ed illusioni.
L'illuminismo prima, la massoneria coi suoi circoli, diffusi in numerosi centri
calabresi(Cosenza, Catanzaro, Tropea,Reggio Calabria, Crotone ecc) e le
correnti giacobine poi hanno contribuito alla formazione una generazione di
giovani aperti al futuro e vogliosi di fare la storia. Basti pensare all’opera
di proselitismo svolta dall’Abbate Jerocades di Parghelia, ai suoi numerosi
viaggi tra Marsiglia, Napoli e le Calabrie, all’l’insegnamento di Francesco
Saverio Salfi a Cosenza, di Pietro Aracri a Catanzaro e di Giuseppe Lagoteta a
Reggio Calabria,
Come non ricordare l’apporto dato dalle donne alla rivoluzione napoletana
da Eleonora Fonseca Pimentel a Luisa Sanfelice, da Giulia Carafa alle giovani
cadute nella difesa del ponte della Matalema.
Il loro coraggio e sacrificio è stato il cuore della rivoluzione napoletana
del 1799, degli alberi della libertà piantati nelle piazze di Catanzaro,
Tropea, Crotone, Pizzo, Amantea, Monteleone(l'attuale Vibo Valenzia), Cosenza e
nei paesi albanesi e il lascito per i moti successivi degli anni venti
dell'ottocento e di quelli del 1848.
In tanti
pensano,ancora oggi sulla scorta della retorica leghista, che l’Italia sia
un’astrazione, una pura invenzione: il romanzo di Mario Aloe mostra il cammino faticoso che l’idea d’Italia
ha dovuto compiere. Un cammino intrapreso in varie parti della nostra penisola
e che noi seguiremo nelle vicende del libro in un giovane calabrese, uno di quei
giovani abitanti del regno delle Due Sicilie che scelse di stare dalla parte
della ragione.
Una scelta
difficile che costò la vita a tanti calabresi basti pensare ad Antonio Toscano,
giovane curato di Corigliano, che si fece saltare insieme ai suoi giovani
compagni d’armi calabresi anche loro alla Vigliena, il forte alle porte di
Napoli da loro difeso, alle gesta della Legione Calabra del generale Schipani,,
ai tanti giustiziati nella piazza del Mercato A Napoli dopo il ritorno dei
borboni. Una generazione di italiani da Agamennone Spano di Reggio Calabria a
Pietro Nicoletti di Rogliano, da Pasquale Baffa di Santa Sofia d’Epiro a
Vincenzo De Filippis di Tiriolo, da Raffaello Antonio Doria di Crotone a
Domenico Bisceglie di Donnici da
Giuseppe Lagoteta di Reggio Calabria a Pasquale Assisi di Cosenza ed altri
ancora di un lungo elenco di martiri. Una generazione presa la via dell’esilio da
Francesco Saverio Salfi di Cosenza a Gugliemo Pepe
Il libro di
Mario Aloe può rappresentare un utile strumento per rileggere la storia delle
nostre città all’interno di una vicenda in movimento in cui le passioni umane
si sviluppano, amori nascono, genti si scontrano, ideali suscitano
rivolgimenti.
martedì 16 ottobre 2012
LA FINE DI UN SOGNO
16 ottobre 2012:, ho mandato il file del romanzo all'editore. Il Titolo è sintomatico del mio stato d'animo: LA FINE DI UN SOGNO.
Quando finisci di scrivere ancora non riesci a staccarti dalla tua creatura, è lì ad assediarti. Anche il fatto che perdi il file corretto è frutto del tuo inconscio che vuole rimanere attaccato alla storia. Il romanzo ormai è fatto, non voglio più ritoccarlo. Lo pubblico con un anno di ritardo; i festeggiamenti per i 150 dell'Italia sono lontani e il pericolo leghista non turba più i sonni di nessuno.
"Cosa potevano fare quegli uomini alla fine di un’epoca quando sembrava che la tirannia fosse ritornata a prendere possesso delle terre italiche: andarono Gioacchino, Luigi Baffa e poche decine di altri coraggiosi con la speranza di sollevare le Calabrie, di risalirle alla testa di un esercito di italiani.
Quando finisci di scrivere ancora non riesci a staccarti dalla tua creatura, è lì ad assediarti. Anche il fatto che perdi il file corretto è frutto del tuo inconscio che vuole rimanere attaccato alla storia. Il romanzo ormai è fatto, non voglio più ritoccarlo. Lo pubblico con un anno di ritardo; i festeggiamenti per i 150 dell'Italia sono lontani e il pericolo leghista non turba più i sonni di nessuno.
"Cosa potevano fare quegli uomini alla fine di un’epoca quando sembrava che la tirannia fosse ritornata a prendere possesso delle terre italiche: andarono Gioacchino, Luigi Baffa e poche decine di altri coraggiosi con la speranza di sollevare le Calabrie, di risalirle alla testa di un esercito di italiani.
Finalmente
si sentivano liberi, liberi di rischiare e di morire."
Stasera il mio stato d'animo è identico.
mercoledì 19 settembre 2012
lunedì 17 settembre 2012
Camminando Onlus Amantea: Escursione al tramonto. San Pietro in Amantea
Camminando Onlus Amantea: Escursione al tramonto. San Pietro in Amantea
Oggi abbiamo percorso l'antica via che da Cosenza scendeva ad Amantea. Abbiamo fatto il tratto da Greci al mare attraversando il Camolo.
Emozioni forti mo hanno fatto compagnia.
Riporto uno dei capitoli del mio nuovo libro: LA FINE DI UN SOGNO; Luigi Baffa storia di un italiano.
Il viaggio viene compiuto nel 1786 da Amantea a Cosenza sulla stessa strada.
Partirono alle prime luci del mattino uscendo dalla porta di Catocastro e, dopo aver attraversato il fiume, salirono per il Camolo raggiungendo, dopo circa un paio di ore, il casale di Vadi posto sul crinale della collina. Avevano scelto questa strada perché li portava lontano dalle acque malsane del “Laghiciello” che, invece, avrebbero incontrato salendo dal casale di San Pietro costeggiando il crinale della montagna per giungere a Terrati.
Il lago anche in ottobre, dopo una stagione di caldo torrido, rappresentava un pericolo per i fumi maleodoranti che da esso si alzavano. La strada che stavano percorrendo evitava invece questo incontro e consentiva anche di accorciare il cammino. Non vi era necessità di passare da Aiello e poi dai casali di Grimaldi e Rogliano ed era inutile correre il pericolo di qualche malattia che dal lago arrivava; il loro carico era destinato a Cosenza.
La giornata era di un azzurro terso e il calore del sole aveva reso l’aria rarefatta. Lontano, piantate nel mare, Stromboli con il suo pennacchio di fumo e poi le isole, una dietro l’altra, e in fondo al mare, prima dell’orizzonte, a Sud, il fantasma dell’Etna. Guardando ti perdevi nell’infinito e avvertivi l’insensatezza dei tuoi sforzi mentre gli affanni diventavano un piccolo sospiro e la tua presenza un granellino nel mondo immutabile della natura. Una sensazione di pace estrema ti attraversava mentre percepivi di essere parte di questi boschi, di queste colline e del mare grande che era là sotto i tuoi occhi e non finiva mai. Tu appartenevi, come ogni altra cosa, a quel respiro lento che accompagnava il tuo cammino.
Gli animali e gli uomini formavano una lunga fila che si adagiava sulla collina. Quella scena, nel ricordo, ora mi appare come un quadro, impressa nella tela dagli oli di un pittore. Ne vedo i colori, ne avverto la calma, ne sento il silenzio.
Prima di Greci si fermarono per un breve riposo e per desinare. Comparvero come d’incanto delle forme di pecorino e della soppressata insieme a degli otri pieni di vino. Mangiarono con calma bevendo dagli otri grandi sorsate di liquido. Il salame fu tagliato in fette dallo spessore di un dito mentre i pezzi di pecorino accompagnavano grandi fette di pane. Non avrebbero più preso cibo fino all’arrivo alla sera e la sosta permetteva di riprendere fiato per il cammino che li attendeva.
Luigi era frenetico e percorreva il sentiero avanti e indietro fermandosi a parlare con i mulattieri, facendosi raccontare storie di donne e banditi. La sua curiosità contagiava il gruppo e nessuno si negava alla risposta.
Il ragazzo alla fine si era convinto ad andare in Collegio, lo aveva spinto il desiderio della nuova avventura e la promessa paterna di un viaggio in barca fino alla capitale nell’estate seguente. Era stato doloroso accettare l’idea di separarsi dagli amici, di non percorrere più le strade e i vicoli della sua città, ma aveva obbedito, si era piegato al volere paterno.
La giornata era ancora lunga e i pericoli del viaggio iniziavano adesso nei boschi di Potame, una selva fitta di castagni, faggi, pini ed elci, che prendevano il posto della macchia mediterranea che li aveva accompagnati fino a seicento metri di altitudine. Non era raro, in questi luoghi, incontrare il cinghiale, la volpe e lo scoiattolo o vedere volteggiare nel cielo il nibbio alla ricerca della sua preda, sentirne il grido acuto rompere il silenzio e potevi ascoltare, proveniente dal fitto della selva, l’ululato del lupo.
Nel bosco diventarono guardinghi. Non volevano correre il rischio di essere preda di un agguato, di uno di quegli assalti a tradimento che si terminavano in pochi istanti con il furto di qualche bestia o il rapimento di uno dei mercanti. Occorreva prudenza e bisognava affidarsi alla destrezza e al mestiere del capo dei mulattieri e alle armi dei miliziotti.
Appena fuori Domanico furono fermati da un gruppo di uomini con il fucile tra le mani, il pugnale ai fianchi, la fiaschetta a tracollo e sul capo il capello nero a cono ornato di nastrini colorati in cui il rosso predominava. Briganti, ma non in numero tale da destare preoccupazione.
Il loro capo, dal fisico atletico e dall’espressione truce, si fece avanti con il braccio alzato e il palmo della mano rivolto verso la comitiva nel segnale di arresto.
“Bielli paisani, da duvi veniti?
Fermativi nu pocu cu nua: nu sorsu ‘i vinu, na fetta di panu e furmaggiu e magari nu pugni di ‘sti fichi ca purtati cu vua.”
Conoscevano il nostro carico, ma il loro atteggiamento non era minaccioso: alcuni dei mulattieri erano loro conoscenti e forse loro compagni di malaffare in passato. Sapevano cosa trasportavano, ma non erano in grado di prendersi la roba.
“Cumpari Micu n’aviti fattu na surpresa.- Biagio il capo dei mulattieri, Biagio Anzovito, dai baffi folti e neri e dallo sguardo duro come un macigno, parlava al bandito. Parlava con lui come si fa con un conoscente, con qualcuno con cui si è mangiato pane e formaggio e spartito il rifugio. - Cumu aviti fatto a sapiri che un convoglio saliva la montagna?
Baaha!
C’ sempre ‘na spia pronta a tradire, nu Giuda che vive tra di noi.
Cumpari miu vua certamente non direte una parola? Non farete mai il nome del traditore, ma sapete pure che con mia ‘un n’é possibile prendersi il carico senza combattere.
Micu’ a mia ‘un na faciti, statini certu!”
“Biagiu Anzovi’ e chi vo’ pigliarsi ‘a robba?
Brigante si, fesso no!
U sacciu che nu scrontu vide a nua perdituri. ‘Un vulimo arrubbari! E pu’ arribbari a vua? Allu mio cumpari?
Simo tutti cristiani, ‘un simo cumu chilli ca si futtuno puri i gallini!
Simu cca, allu passu e tutti ni lassunu ancuna cosa.
Ci simu nua e la presenza nostra ‘un permette che ci siano cristiani marvagi. Nua survegliamu u boscu, cu nua site sicuri, putiti camminari in paci.”
Il brigante appariva anche lui un mercante, un venditore, che invece di frequentare le fiere di paese se ne stava appostato nei boschi e acquistava, incutendo paura, la roba degli altri senza pagare una grana.
Non erano una grossa banda e apparivano mal armati, ma dalla loro stava la conoscenza perfetta del territorio e la possibilità di colpire alle spalle senza farsene accorgere.
“Micu’ sti signuri, cumu tu sai, vengono da Amantea e portano a merce loro a Cosenza. Tutti rispettabili sunu e anche ‘mportanti. Iu mi signu incaricatu della loro protezione.
A parola di Biagio Anzovito è una merce preziosa e non sarete voi a impedire il passo.
U saggiu che aviti fami, u saggiu ca siti alla macchia per le ingiustizie subite, ma la rrobba loro ‘un na toccati.”
Questo non significava che potessero andare oltre senza pagare il pedaggio: si sarebbero lasciati dietro dei nemici e uno sgarbo era difficilmente scordato da gente simile.
Avrebbero pagato. Un cesto di fichi secchi, un barile di alici salate, un vaso di tonno sott’olio potevano bastare e in cambio avrebbero avuto la certezza di non essere più molestati fino a Cosenza e di non fare brutti incontri al ritorno. Al ritorno avrebbero dovuto ridare qualcosa della merce acquistata in città: qualche camicia, una manciata di nastri colorati. I “signuri di Amantea” si sarebbero rifatti delle perdite aumentando il prezzo delle merci, qualcun altro avrebbe pagato al loro posto.
Luigi rimase sorpreso, i briganti non erano feroci come se li era immaginati. Sì, erano eguali nel vestimento alle figure viste nei libri, avevano le armi dei racconti, ma non prendevano con la forza la roba degli altri. Il loro capo non era intelligente come pensava che dovesse essere un gran brigante. Lo aveva capito scrutando gli occhi dell’uomo, pupille poco mobili, incapaci di percepire la totalità del mondo, occhi duri, frutto della vita pericolosa condotta, ma anche occhi non guizzanti, non in grado di adeguarsi velocemente a fatti in rapido cambiamento. Forse anche per questo la banda non era cresciuta diventando un piccolo esercito.
Il ragazzo chiese il permesso di toccare le loro armi, prese in mano lo stiletto, assaggiò il vino delle loro borracce e sentì il racconto di uno di loro.
Il brigante apparteneva a una famiglia di contadini, che lavoravano a giornata sulla terra altrui, tanto era scarsa la possibilità di sfamarsi del frutto del proprio terreno. Una vita di miseria condotta alla ricerca perenne di qualcosa con cui cibarsi L’unico loro bene era una capra. La bestia aveva invaso il terreno della famiglia di don Antonio, il notaro di Carolei ed era stata sequestrata e mangiata dai suoi guardiani. Un torto senza rimedio, un’ingiustizia che privava i suoi del latte dell’animale. A nulla erano valse le lamentele, a nulla le richieste di risarcimento: il giovane si era fatto giustizia da solo sgozzando le pecore di don Antonio e dopo era stato costretto ad andare in montagna ed unirsi alla banda.
“Signu iutu alla casa del notaro; che paura ca avive! Mi battive forti ‘u cori. Fino a chillu iurnu non avive fattu mali a nessunu, anche qannu a mamma mia ammazzave li gallini iu avive di guardari i l’atra vanna.
Ho bussato rispettosamente al suo portone ed ho atteso il permesso di salire le scale. Ho aspettato che Don Antonio mi ricevesse.
‘N’attesa longa, nemmenu nu principu m’avisse fattu aspettari tantu.
Ed iu è aspettatu cu’ lu cappiellu in manu in signu di rispettu. Mentre aspettavo morivo, la paura aumentava, mi ripetevo le parole che avrei dovuto dire per non scardarmele e ritornare indietro senza aver pronunciato nulla.
Nu uaglunu eru e donn’Antoniu avivi tuttu: casi, greggi, terreni e guardiani. Iu eru sulu, na capra avive e loru si l’erunu mangiata.
A mamma mia ‘un vuliva che iisse alla casa du padrunu e memmenu suorma.
Chi putive fare nu ugliunu?
‘Un putive che crisciri, diventare uomminu.
E daccussì iu è fattu: n’uommunu signu diventatu, n’uommunu furiusu quannu don Antonio m’a cacciatu da casa sua, quannu m’à negatu u tuortu ca a famiglia mia avive ricevutu.”
Luigi ascoltava con attenzione e dentro sentiva la rabbia montare contro il notaro di Carolei: anche lui avrebbe chiesto giustizia, anche lui si vedeva nei panni del brigante e domandò: “C’à fattu pu’, ti si fattu giustizia, si iutu a chiedere l’intervento dei gendarmi?
Dimmi, raccontami cosa hai fatto?”
“Vossignoria putive iire dai gendarmi e si putive pigliare l’avvocatu, ma iu ‘un avie nenti e cu chi li pagave l’avvocati?
Chi mi stave a sentire a mia?
‘Un aiu avutu atri possibilità, sulu a vendetta mi restava, sulu faciennu ‘u malu putive rennere chillu ca avie ricevuto.
Signu ritornatu alla casa e che chianti è dovutu sentire. I fimmini, a manna mia e la suora mia a mi pregari, a mi chiedere di scurdari.
“‘Un nu fari dicivunu; ‘ un nu fari”.
N’uomminu chi putive fari?
Lavari u tuortu cu ‘na vendetta, ecco chi putive fari e iu l’è fattu...
Tuttu nu greggiu è ammazzatu, tuttu!
Vua c’avissivu fattu?
Vossignoria c’avisse fattu?”
Il brigante chiedeva ansioso e aspettava una risposta che placasse i rimpianti. Una vita lasciata dietro, una vita misera, ma onesta era quella che si era lasciata alle spalle per la prepotenza di un galantuomo.
“L’avisse ammazzate tutte pur’iu” il giovane Baffa rispose e i loro occhi si incontrarono in un cenno di totale intesa, di condivisione.
Ripresero il cammino: mancavano ancora poche ore al tramonto e non volevano farsi cogliere dal buio della notte a girovagare nei boschi.
Scesero velocemente verso Carolei e dopo finalmente nel Busento.
Appena prima del tramonto furono a Cosenza, fermandosi per la notte ai Rivocati.
Oggi abbiamo percorso l'antica via che da Cosenza scendeva ad Amantea. Abbiamo fatto il tratto da Greci al mare attraversando il Camolo.
Emozioni forti mo hanno fatto compagnia.
Riporto uno dei capitoli del mio nuovo libro: LA FINE DI UN SOGNO; Luigi Baffa storia di un italiano.
Il viaggio viene compiuto nel 1786 da Amantea a Cosenza sulla stessa strada.
Partirono alle prime luci del mattino uscendo dalla porta di Catocastro e, dopo aver attraversato il fiume, salirono per il Camolo raggiungendo, dopo circa un paio di ore, il casale di Vadi posto sul crinale della collina. Avevano scelto questa strada perché li portava lontano dalle acque malsane del “Laghiciello” che, invece, avrebbero incontrato salendo dal casale di San Pietro costeggiando il crinale della montagna per giungere a Terrati.
Il lago anche in ottobre, dopo una stagione di caldo torrido, rappresentava un pericolo per i fumi maleodoranti che da esso si alzavano. La strada che stavano percorrendo evitava invece questo incontro e consentiva anche di accorciare il cammino. Non vi era necessità di passare da Aiello e poi dai casali di Grimaldi e Rogliano ed era inutile correre il pericolo di qualche malattia che dal lago arrivava; il loro carico era destinato a Cosenza.
La giornata era di un azzurro terso e il calore del sole aveva reso l’aria rarefatta. Lontano, piantate nel mare, Stromboli con il suo pennacchio di fumo e poi le isole, una dietro l’altra, e in fondo al mare, prima dell’orizzonte, a Sud, il fantasma dell’Etna. Guardando ti perdevi nell’infinito e avvertivi l’insensatezza dei tuoi sforzi mentre gli affanni diventavano un piccolo sospiro e la tua presenza un granellino nel mondo immutabile della natura. Una sensazione di pace estrema ti attraversava mentre percepivi di essere parte di questi boschi, di queste colline e del mare grande che era là sotto i tuoi occhi e non finiva mai. Tu appartenevi, come ogni altra cosa, a quel respiro lento che accompagnava il tuo cammino.
Gli animali e gli uomini formavano una lunga fila che si adagiava sulla collina. Quella scena, nel ricordo, ora mi appare come un quadro, impressa nella tela dagli oli di un pittore. Ne vedo i colori, ne avverto la calma, ne sento il silenzio.
Prima di Greci si fermarono per un breve riposo e per desinare. Comparvero come d’incanto delle forme di pecorino e della soppressata insieme a degli otri pieni di vino. Mangiarono con calma bevendo dagli otri grandi sorsate di liquido. Il salame fu tagliato in fette dallo spessore di un dito mentre i pezzi di pecorino accompagnavano grandi fette di pane. Non avrebbero più preso cibo fino all’arrivo alla sera e la sosta permetteva di riprendere fiato per il cammino che li attendeva.
Luigi era frenetico e percorreva il sentiero avanti e indietro fermandosi a parlare con i mulattieri, facendosi raccontare storie di donne e banditi. La sua curiosità contagiava il gruppo e nessuno si negava alla risposta.
Il ragazzo alla fine si era convinto ad andare in Collegio, lo aveva spinto il desiderio della nuova avventura e la promessa paterna di un viaggio in barca fino alla capitale nell’estate seguente. Era stato doloroso accettare l’idea di separarsi dagli amici, di non percorrere più le strade e i vicoli della sua città, ma aveva obbedito, si era piegato al volere paterno.
La giornata era ancora lunga e i pericoli del viaggio iniziavano adesso nei boschi di Potame, una selva fitta di castagni, faggi, pini ed elci, che prendevano il posto della macchia mediterranea che li aveva accompagnati fino a seicento metri di altitudine. Non era raro, in questi luoghi, incontrare il cinghiale, la volpe e lo scoiattolo o vedere volteggiare nel cielo il nibbio alla ricerca della sua preda, sentirne il grido acuto rompere il silenzio e potevi ascoltare, proveniente dal fitto della selva, l’ululato del lupo.
Nel bosco diventarono guardinghi. Non volevano correre il rischio di essere preda di un agguato, di uno di quegli assalti a tradimento che si terminavano in pochi istanti con il furto di qualche bestia o il rapimento di uno dei mercanti. Occorreva prudenza e bisognava affidarsi alla destrezza e al mestiere del capo dei mulattieri e alle armi dei miliziotti.
Appena fuori Domanico furono fermati da un gruppo di uomini con il fucile tra le mani, il pugnale ai fianchi, la fiaschetta a tracollo e sul capo il capello nero a cono ornato di nastrini colorati in cui il rosso predominava. Briganti, ma non in numero tale da destare preoccupazione.
Il loro capo, dal fisico atletico e dall’espressione truce, si fece avanti con il braccio alzato e il palmo della mano rivolto verso la comitiva nel segnale di arresto.
“Bielli paisani, da duvi veniti?
Fermativi nu pocu cu nua: nu sorsu ‘i vinu, na fetta di panu e furmaggiu e magari nu pugni di ‘sti fichi ca purtati cu vua.”
Conoscevano il nostro carico, ma il loro atteggiamento non era minaccioso: alcuni dei mulattieri erano loro conoscenti e forse loro compagni di malaffare in passato. Sapevano cosa trasportavano, ma non erano in grado di prendersi la roba.
“Cumpari Micu n’aviti fattu na surpresa.- Biagio il capo dei mulattieri, Biagio Anzovito, dai baffi folti e neri e dallo sguardo duro come un macigno, parlava al bandito. Parlava con lui come si fa con un conoscente, con qualcuno con cui si è mangiato pane e formaggio e spartito il rifugio. - Cumu aviti fatto a sapiri che un convoglio saliva la montagna?
Baaha!
C’ sempre ‘na spia pronta a tradire, nu Giuda che vive tra di noi.
Cumpari miu vua certamente non direte una parola? Non farete mai il nome del traditore, ma sapete pure che con mia ‘un n’é possibile prendersi il carico senza combattere.
Micu’ a mia ‘un na faciti, statini certu!”
“Biagiu Anzovi’ e chi vo’ pigliarsi ‘a robba?
Brigante si, fesso no!
U sacciu che nu scrontu vide a nua perdituri. ‘Un vulimo arrubbari! E pu’ arribbari a vua? Allu mio cumpari?
Simo tutti cristiani, ‘un simo cumu chilli ca si futtuno puri i gallini!
Simu cca, allu passu e tutti ni lassunu ancuna cosa.
Ci simu nua e la presenza nostra ‘un permette che ci siano cristiani marvagi. Nua survegliamu u boscu, cu nua site sicuri, putiti camminari in paci.”
Il brigante appariva anche lui un mercante, un venditore, che invece di frequentare le fiere di paese se ne stava appostato nei boschi e acquistava, incutendo paura, la roba degli altri senza pagare una grana.
Non erano una grossa banda e apparivano mal armati, ma dalla loro stava la conoscenza perfetta del territorio e la possibilità di colpire alle spalle senza farsene accorgere.
“Micu’ sti signuri, cumu tu sai, vengono da Amantea e portano a merce loro a Cosenza. Tutti rispettabili sunu e anche ‘mportanti. Iu mi signu incaricatu della loro protezione.
A parola di Biagio Anzovito è una merce preziosa e non sarete voi a impedire il passo.
U saggiu che aviti fami, u saggiu ca siti alla macchia per le ingiustizie subite, ma la rrobba loro ‘un na toccati.”
Questo non significava che potessero andare oltre senza pagare il pedaggio: si sarebbero lasciati dietro dei nemici e uno sgarbo era difficilmente scordato da gente simile.
Avrebbero pagato. Un cesto di fichi secchi, un barile di alici salate, un vaso di tonno sott’olio potevano bastare e in cambio avrebbero avuto la certezza di non essere più molestati fino a Cosenza e di non fare brutti incontri al ritorno. Al ritorno avrebbero dovuto ridare qualcosa della merce acquistata in città: qualche camicia, una manciata di nastri colorati. I “signuri di Amantea” si sarebbero rifatti delle perdite aumentando il prezzo delle merci, qualcun altro avrebbe pagato al loro posto.
Luigi rimase sorpreso, i briganti non erano feroci come se li era immaginati. Sì, erano eguali nel vestimento alle figure viste nei libri, avevano le armi dei racconti, ma non prendevano con la forza la roba degli altri. Il loro capo non era intelligente come pensava che dovesse essere un gran brigante. Lo aveva capito scrutando gli occhi dell’uomo, pupille poco mobili, incapaci di percepire la totalità del mondo, occhi duri, frutto della vita pericolosa condotta, ma anche occhi non guizzanti, non in grado di adeguarsi velocemente a fatti in rapido cambiamento. Forse anche per questo la banda non era cresciuta diventando un piccolo esercito.
Il ragazzo chiese il permesso di toccare le loro armi, prese in mano lo stiletto, assaggiò il vino delle loro borracce e sentì il racconto di uno di loro.
Il brigante apparteneva a una famiglia di contadini, che lavoravano a giornata sulla terra altrui, tanto era scarsa la possibilità di sfamarsi del frutto del proprio terreno. Una vita di miseria condotta alla ricerca perenne di qualcosa con cui cibarsi L’unico loro bene era una capra. La bestia aveva invaso il terreno della famiglia di don Antonio, il notaro di Carolei ed era stata sequestrata e mangiata dai suoi guardiani. Un torto senza rimedio, un’ingiustizia che privava i suoi del latte dell’animale. A nulla erano valse le lamentele, a nulla le richieste di risarcimento: il giovane si era fatto giustizia da solo sgozzando le pecore di don Antonio e dopo era stato costretto ad andare in montagna ed unirsi alla banda.
“Signu iutu alla casa del notaro; che paura ca avive! Mi battive forti ‘u cori. Fino a chillu iurnu non avive fattu mali a nessunu, anche qannu a mamma mia ammazzave li gallini iu avive di guardari i l’atra vanna.
Ho bussato rispettosamente al suo portone ed ho atteso il permesso di salire le scale. Ho aspettato che Don Antonio mi ricevesse.
‘N’attesa longa, nemmenu nu principu m’avisse fattu aspettari tantu.
Ed iu è aspettatu cu’ lu cappiellu in manu in signu di rispettu. Mentre aspettavo morivo, la paura aumentava, mi ripetevo le parole che avrei dovuto dire per non scardarmele e ritornare indietro senza aver pronunciato nulla.
Nu uaglunu eru e donn’Antoniu avivi tuttu: casi, greggi, terreni e guardiani. Iu eru sulu, na capra avive e loru si l’erunu mangiata.
A mamma mia ‘un vuliva che iisse alla casa du padrunu e memmenu suorma.
Chi putive fare nu ugliunu?
‘Un putive che crisciri, diventare uomminu.
E daccussì iu è fattu: n’uommunu signu diventatu, n’uommunu furiusu quannu don Antonio m’a cacciatu da casa sua, quannu m’à negatu u tuortu ca a famiglia mia avive ricevutu.”
Luigi ascoltava con attenzione e dentro sentiva la rabbia montare contro il notaro di Carolei: anche lui avrebbe chiesto giustizia, anche lui si vedeva nei panni del brigante e domandò: “C’à fattu pu’, ti si fattu giustizia, si iutu a chiedere l’intervento dei gendarmi?
Dimmi, raccontami cosa hai fatto?”
“Vossignoria putive iire dai gendarmi e si putive pigliare l’avvocatu, ma iu ‘un avie nenti e cu chi li pagave l’avvocati?
Chi mi stave a sentire a mia?
‘Un aiu avutu atri possibilità, sulu a vendetta mi restava, sulu faciennu ‘u malu putive rennere chillu ca avie ricevuto.
Signu ritornatu alla casa e che chianti è dovutu sentire. I fimmini, a manna mia e la suora mia a mi pregari, a mi chiedere di scurdari.
“‘Un nu fari dicivunu; ‘ un nu fari”.
N’uomminu chi putive fari?
Lavari u tuortu cu ‘na vendetta, ecco chi putive fari e iu l’è fattu...
Tuttu nu greggiu è ammazzatu, tuttu!
Vua c’avissivu fattu?
Vossignoria c’avisse fattu?”
Il brigante chiedeva ansioso e aspettava una risposta che placasse i rimpianti. Una vita lasciata dietro, una vita misera, ma onesta era quella che si era lasciata alle spalle per la prepotenza di un galantuomo.
“L’avisse ammazzate tutte pur’iu” il giovane Baffa rispose e i loro occhi si incontrarono in un cenno di totale intesa, di condivisione.
Ripresero il cammino: mancavano ancora poche ore al tramonto e non volevano farsi cogliere dal buio della notte a girovagare nei boschi.
Scesero velocemente verso Carolei e dopo finalmente nel Busento.
Appena prima del tramonto furono a Cosenza, fermandosi per la notte ai Rivocati.
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